Innovazione. Si pensava (pensavo) che la contrapposizione tra innovazione e tradizione fosse superata da tempo.
Dai tempi, recenti ma non troppo, in cui “innovazione” ha cominciato a significare anche recuperare la tradizione con conoscenza e consapevolezza contemporanee.
E via, allora, con i semi antichi reintrodotti, i formaggi dimenticati, i metodi di coltura più vicini alla natura eccetera, ma con la conoscenza dei principi nutrizionali, della sicurezza alimentare, delle tecniche di trasformazione e di conservazione più efficaci.
In più, l’innovazione glorificata in quanto tale ha più volte, in passato, mostrato la propria pochezza. Tante le innovazioni che hanno suscitato grandi entusiasmi salvo poi rivelarsi passi indietro in termini di qualità e salubrità dei cibi.
E dunque: si pensava (pensavo) che la dicotomia se ne fosse opportunamente andata in quel limbo dei catorci da rottamazione in cui finiscono le mode, i tic, le manie ciclicamente alla ribalta.
Invece no. Perché il conflitto può essere reintrodotto, surrettiziamente, ricreando la noiosa e sbagliata diatriba tra futuristi e passatisti, buttandoci dentro chi passatista non è affatto, anzi ha aperto, talvolta, strade nelle quali tanti si sono infilati ritagliandosi ruolo, visibilità, mestiere.
Parlo di pizzaioli, e di tutto il mondo che con la pizza ha a che fare. Parlo della discussione (per la verità poco “discussa”, perché a discutere coi novatori si rischia di essere messi alla berlina in modo piuttosto sbrigativo) sorta a seguito di un convegno svoltosi nei giorni scorsi a Napoli a proposito del futuro della pizza inteso soprattutto come futuro dei forni: a legna, a gas, elettrici.
Passatista non è chi pretende rispetto per l’identità e l’integrità di un prodotto della tradizione (e ha aperto strade, lo ripeto, utili a tanti, seguite da tanti); inutile e ingiusto cercare di farlo apparire come l’ultimo giapponese asserragliato nella giungla o il romantico retrogrado attaccato al colore e al folklore, intento a cantare Funiculì funiculà, a ballicchiare la tarantella e a farsi sanguinare le dita sulle corde del mandolino. Inutile. Ingiusto. Dannoso.
Perché ci vuole poco, volendolo, a far di tutti i sostenitori di un’identità ben precisa – che passa anche per l’uso del forno a legna – dei bersagli per freccette. E partire lancia in resta alla conquista del mondo, orsù, dicendo “portiamo la pizza napoletana anche in cima ai grattacieli newyorkesi o per le vie della bella Parigi”, ci fa sembrare tutti evoluti, spregiudicati e persino ben intenzionati; e se ciò comporta buttare a mare i forni a legna e fare qualche aggiustamento, ben venga, perché siamo novatori e al passato non guardiamo, ché non possiamo restare avvinghiati a quello e dobbiamo proiettarci verso il futuro. E poi, prima o poi i forni a legna ce li toglieranno, ci dobbiamo attrezzare, dobbiamo precorrere gli eventi.
Tutto molto bello. Perché non vogliamo restare indietro. Perché non vogliamo mica essere quelli che cantano funiculì funiculà mentre altrove fanno i soldi massacrando la nostra pizza.
E allora tanto vale che la “aggiustiamo” noi per adeguarla alle necessità. Tanto vale. O forse no.
Sono del tutto insensibile al fascino facilone che la parola innovazione porta con sé, con quel retrogusto di dinamico e attuale, parola così diversa da cambiamento o trasformazione, più neutrali e dunque più innocenti. Innovazione è parola che non si sceglie a caso, non candidamente. Fa di chi la contrasta un vecchio rudere in un nanosecondo. Se accompagnata da futuro, poi, è l’arma finale.
Perciò, accettando il rischio di essere qualificata come vecchio rudere (che ci sta, data l’età), mi domando, con finta innocenza comparabile a quella della parola innovazione: abbiamo bisogno di conquistare il mondo nel mondo, anche a costo di rese e abdicazioni, o di portarlo qui, il mondo, a mangiare la pizza napoletana autentica? Abbiamo bisogno di trovare compromessi o di far in modo che chi viene qui possa consumare OVUNQUE una pizza fatta a regola d’arte, e dunque di formare, perfezionare, controllare, se necessario bastonare? Vogliamo adottare un modello globale e globalmente tendente al meno peggio o fare della pizza napoletana un elemento identitario e di attrazione turistica? Vogliamo addomesticare il nostro prodotto pur di far vendere superforni in giro per il mondo installandoli finanche sulla Shanghai Tower o vogliamo condurre una sacrosanta battaglia a tutela dei nostri bei forni a legna, qualora qualcuno provasse a metterci il naso?
E perché gli altri (i francesi, per esempio) sanno ben reagire quando si cerca di sfiorare le loro produzioni tradizionali e noi invece ci sentiamo così moderni da non averne bisogno? Moderni al punto da apparire rinunciatari, con troppa facilità? Siamo più furbi di loro? Più intelligenti? E siamo sicuri che ad esser troppo furbi non ci si ritrovi gabbati, perdendo (saggezza partenopea) a Felippo e ‘o panaro?
Mi domanderei, pure, sommessamente, se tra il rigido barricadero di ieri e il rampante conquistatore-di-mercati-wannabe di oggi non ci siano infinite, sfumate posizioni che hanno (buon) senso.
Mi si mostri uno disposto a scambiare un profumato pane cotto a fascine con quello dell’elettroforno.
E uno sprovveduto che ignori che il sushi che gli servono sotto casa non è uguale a quello che mangerebbe in Giappone, che chi vuole una Sacher originale deve andare fino a Vienna, e che non sappia che queste cose rientrano tra le ragioni per cui un viaggio in Giappone o a Vienna può essere sognato.
E scusate se, forse, appaio innocente davvero. Una sempliciotta. Addirittura naïf.
Non come il totem innovazione e l’altro, futuro, che ci vengono sventolati davanti agli occhi – a debita distanza – come la classica carota.
Corro a togliere la polvere dal mandolino.