Latte sì, latte no. Fa male, fa bene, dobbiamo rinunciarci, anzi no: dobbiamo assumerlo. È al centro, da qualche tempo, di sanguinose guerre di posizione. Ma non sarà solo che del modo in cui le mucche vengono allevate e nutrite, del latte che beviamo, della sua qualità, della provenienza ci curiamo troppo poco, benché sia tra gli alimenti alla base della nostra dieta quotidiana?
C’è un antico paese che se ne sta racchiuso nell’alto Sannio, cuore profondo della Campania, in provincia di Benevento, al confine con il Molise e praticamente a metà strada tra il Tirreno e l’Adriatico. Si chiama Castelpagano, un bel borgo medioevale a vocazione agricola; i pascoli non gli mancano di certo ed è là che otto allevatori riuniti in consorzio producono il Latte dell’Appennino Campano che poi, pastorizzato e imbottigliato, raggiunge diversi punti vendita della regione, attraverso una filiera corta e controllata.
Berlo è come bere un pezzo di territorio, e lo so che di questa parola non se ne può più, ma è difficile trovarne un’altra che esprima nello stesso modo onnicomprensivo natura e cultura, l’insieme di un ambiente pressoché incontaminato e dell’elemento umano che si integra in esso con rispetto e con un saper fare che viene da lontano.
Il latte, saporito, esprime aromi vegetali che derivano dal foraggio fresco, erbe e fieno, con cui le vacche vengono nutrite: coltivato dagli stessi allevatori in prati polifiti, è integrato con piccole percentuali di un mangime la cui composizione è in via di omologazione da parte della Biolat, a cui sono affidate le analisi per il costante monitoraggio della qualità del latte, che si caratterizza per un buon rapporto tra Omega 3 e Omega 6. Gli insilati sono banditi dall’alimentazione degli animali.
Ciascun allevatore ha 10-15 capi di razze miste (Bruna Alpina, Frisona, Pezzata Rossa) ognuno dei quali produce circa 5000 litri di latte all’anno; in parte commercializzato come latte alimentare, viene usato anche per la trasformazione, affidata al Caseificio Aversano di Palma Campania e a Scaramuré di Nola.
Il disciplinare del Latte dell’Appennino Campano è in via di definizione, in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università Federico II.
Con il Latte dell’Appennino Campano si producono fior di latte, provola affumicata con abete biologico, il Fiaschetto (sorta di scamorza) e il Cacionobile (per il quale si progetta in futuro una stagionatura di almeno 4 mesi e il passaggio in grotta), la fuscella (che può sembrare una ricotta particolarmente gustosa e ricca, ma è fatta con latte e non con siero) e lo yogurt.
E Scaramuré ne ricava una serie di creazioni dolci: i dessert in barattolo ispirati alla pastiera, alla cassata napoletana, al tiramisù, alla delizia al limone o che uniscono ad una dolce crema a base di fuscella i fichi del Cilento o il cioccolato Callebaut; i gelati, anch’essi in barattolo, che impiegano pistacchi siciliani, nocciole mortarelle e cacao belga, i sorbetti e gli yogurt con frutta fresca campana e le torte della tradizione regionale.
Tornando alla querelle iniziale, io sono per il “latte sì, ma con giudizio”, criterio che credo valga per qualsiasi alimento. Per i veleni riconosciuti tali no, ma per gli alimenti, anche quelli periodicamente demonizzati, sì.
In altre parole, anziché mettere al bando, stiamo attenti quando scegliamo. Anche il latte.
Il latte e i prodotti derivati sono distribuiti in piccole botteghe della Campania. Indirizzi sulla pagina Facebook del Latte dell’Appennino Campano.
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