C’è stato un tempo in cui la si preferiva a tutte le altre e la si trovava senza difficoltà.
Non si era affatto stupidi, in quel tempo: la pera mastantuono è una delle più gustose e più ricche di profumi, benché sia molto piccola e non bellissima.
Come altri frutti, è stata vittima dell’industria; le sue dimensioni e la sua deperibilità ne hanno fatto declinare le fortune. Meglio varietà più insapori che però si conservano meglio e sono più grandi, più polpose. Così credono alcuni.
Di recente si torna ad incontrarla, ogni tanto, su qualche banco di frutta, perché (e meno male) la consapevolezza cresce e l’attenzione dei consumatori pure.
Inserita dalla Regione Campania nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT), la mastantuono è tondeggiante, di colore tra il verde chiaro e il giallino, con macchioline marroni; può pesare anche solo 40 grammi; se ben matura è morbida, altrimenti croccante e davvero saporita. Il profumo della sua polpa è inconfondibile e così le sfumature singolarissime del suo sapore.
Guglielmo Gasparrini, grande studioso di botanica dell’800, ne scriveva nel suo Breve ragguaglio dell’agricoltura e pastorizia del regno di Napoli di qua’ del faro, inserendola in un elenco di circa venti varietà tipiche del regno (nostrali) e tra quelle più apprezzate dai napoletani. “…sembra particolare alla contrada nostra“, aggiungeva, sottolineando come se ne producesse una quantità abbondante. D’altronde doveva essere ben nota, la mastantuono, già in epoche assai remote, giacché una sua raffigurazione è stata identificata nel peristilio della Casa dei Cervi di Ercolano.
E il suo aspetto poco attraente, che non ingannava i palati fini quando la sostanza contava più dell’apparenza, ispirò un verso minaccioso al barone Michele Zezza, autore di poemetti comici:
Attiente sa: chi non se porta buono,
L’ammatonto qua ppiro mastantuono.*
Che tradotto vuol dire che chi si comporta male finirà tumefatto e “ammaccato” come una mastantuono, appunto.
Trionfale in agosto, ben viva anche oltre l’estate piena, la mastantuono era tanto comune da entrare in molte ricette tipiche. Ingrediente fondamentale delle pere ripiene di ricotta e ricoperte di cioccolato della Costiera Sorrentina, veniva e viene usata anche in ricette salate. La si farcisce di carne, pinoli, formaggio e pane, cuocendola poi nella salsa di pomodoro, ed è persino alla base di una minestra riportata ne La cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837):
Minestra di frutti semplice
Farai la salsa di pomidoro con l’estratto di rotoli quattro, lo porrai in una proporzionata casseruola con once dodici di sugna, prima sfumata e dell’acqua bollente, in questa salsa, anzi brodo, ci farai cuocere pria rotoli due di percoche scorzate, e divise in quartini ed a misura che si cuoceranno con mescola bucata diligentemente li porrai in disparte, similmente farai con rotoli due di pera, le così dette Mastantuono; quindi farai cuocere due dozzine di piccole cipollette e torzelle, e finalmente due o tre zucche lunghe, ovvero cocozzelle, le quali le rasperai, le dividerai per lungo, ed a quartini, ne toglierai quel pane con li semi, e poi li taglierai a piccoli mostaccioletti; cotte che saranno le cocozzelle, allora diligentemente ci unirai quanto avrai precedentemente cotto ed al momento di servire questa minestra porrai tutto nella zuppiera, non molto brodosa, e sarà ottima.
Una leggenda vuole che un pero improduttivo venisse infine tagliato da un contadino senza più pazienza, e che il contadino ne vendesse il legno.
Poi uno scultore, che lo acquistò, ne fece una statua dedicata a Sant’Antonio che fu esposta in chiesa, e fu là che il contadino la vide. Irritato verso il suo albero infruttifero che faceva bella mostra di sé con le fattezze del santo, gli si rivolse così: “Io ti cunosco piro, e nun facive pere, mo’ che si Sant’Antuono vuo’ fa’ ‘e grazie?” (Ti conosco come pero, e non facevi pere; adesso che sei Sant’Antonio pretendi di fare grazie?).
Da qui proverrebbe il curioso nome della dolce pera un tempo popolare, ormai rara. E costosa.
*Da: “La vita e la morte de no pappagallo, zoe lo ver-vert de monzu Gresset poemetto commeco de mister Pope sconcecato da no poveta pupazzo parafrasato da lo barone Michele Zezza“